La conquista silenziosa
Sabato al parco, come ogni weekend, nostro figlio ha fatto quello che per lui è diventato normale: arrampicarsi sull’albero di noci che domina il centro del parco. Mentre nei mesi scorsi aveva ancora qualche timore, negli ultimi giorni qualcosa è cambiato. A cinque anni, ha conquistato la vetta.
Non è stata una conquista improvvisa, ma un processo graduale. Prima i rami più bassi, poi quelli intermedi, fino ad arrivare in cima con sicurezza e consapevolezza. Per me non è solo normale – è qualcosa che incentivo attivamente. Ogni volta che sale, impara a valutare i rischi, a conoscere i suoi limiti, a responsabilizzarsi. È allenamento fisico, ma soprattutto è crescita.
Lo stupore degli spettatori
Quel sabato l’albero era circondato da un gruppo di bambini, tutti più grandi del nostro. Quando hanno notato la piccola figura in cima ai rami, i loro commenti erano pieni di stupore. Eleonora, incuriosita dalle loro reazioni, ha fatto una domanda semplice: “Non siete mai saliti su un albero?”
La risposta è arrivata corale: “No.”
Non sono mai saliti su un albero. Bambini di sette, otto, nove anni che non hanno mai vissuto una delle esperienze più basilari dell’infanzia. Non sono mai saliti su un albero.
Il padre e il cellulare
Un ragazzino, più coraggioso degli altri, ha deciso di provare. Si è avvicinato al tronco con un approccio naturale, istintivo. Era bravo, si vedeva che aveva le capacità. Ma è durato poco.
Il padre, seduto a uno dei tavoli da picnic, ha alzato lo sguardo dal cellulare giusto il tempo necessario per gridare: “Scendi subito! Ci potrebbero essere bruchi pelosi e pericolosi!”
Presumibilmente si riferiva alla processionaria, che comunque non è ancora stata avvistata. Ogni anno nel parco ci sono bruchi gialli e pelosi, ma sono totalmente innocui. Il ragazzino è sceso. Il padre è tornato al suo schermo.
La generazione dell’incertezza
Prima di avere figli, e ancor prima di aver tentato di costruire una scuola itinerante con apprendimento in natura, non ero consapevole di quanto i bambini oggi non siano più liberi di fare e di provare. I genitori navigano costantemente tra la paura che si possano fare male, sporcare, “comportare male” – qualunque cosa significhi – e la necessità di organizzare ogni momento della loro vita.
Scuola, allenamenti, doposcuola, attività per l’apprendimento, esperienze varie, viaggi, vacanze. Tutto programmato, tutto strutturato, tutto controllato.
Forse è vero che stiamo crescendo la generazione meno forte fisicamente e, di conseguenza, meno resiliente della storia. Bambini intellettualmente e accademicamente abili, ma privi di esperienza e libero arbitrio. Destinati a una vita nell’incertezza di non sapere cosa vorranno, perché non hanno mai dovuto prendere una decisione. Non hanno mai provato rischi che potessero formare in loro un senso per la valutazione del pericolo.
Il paradosso del tempo libero
Sempre più spesso nostro figlio mi chiede, stupito, come mai molti bambini non possono decidere niente, non hanno mai tempo libero e non stanno mai nei boschi o sui prati a giocare. O semplicemente a fare nulla.
Nulla come in niente proprio. Allo sbando totale nella necessità di trovarsi un’occupazione, o appunto di non fare niente. Quella noia creativa che è il terreno fertile di ogni scoperta, di ogni gioco inventato, di ogni avventura.
Anche i miei figli passano più tempo di quanto vorrei in casa o al chiuso. Anch’io faccio fatica a tenerli lontani da dispositivi o attività in cui diventano seguaci passivi di qualcosa. Ma almeno ci provo a fargli avere un’infanzia stimolante, piena della giusta dose di rischio, ma anche di responsabilità e soprattutto di autodeterminazione.
Anche a soli cinque anni. O forse da sempre.
La scelta di restare fedeli a se stessi
Per un periodo, pur di frequentare qualcuno, ci siamo trovati spesso a seguire gli altri. Ci ritrovavamo continuamente in situazioni di attività strutturate, pre-organizzate. Poi ci siamo accorti che non fa per noi e abbiamo deciso di insistere sul nostro modo di vivere.
Non c’è niente di male nello stare “soli” in famiglia. Con il tempo stiamo trovando sempre più famiglie come noi. Una comunità vera e reale. È una sensazione veramente bella e rassicurante.
Mentre scrivo queste righe, penso a quel ragazzino che voleva salire sull’albero e al padre con il cellulare. Penso ai bambini che non hanno mai sentito la corteccia ruvida sotto le mani, non hanno mai testato la resistenza di un ramo, non hanno mai guardato il mondo dall’alto di una chioma.
E penso a mio figlio, in cima al suo albero di noci, che impara ogni giorno che crescere significa anche saper valutare quando è il momento di salire e quando è il momento di fermarsi. Non perché glielo dice qualcuno, ma perché lo sente dentro di sé.
Forse è questa la differenza più grande: crescere sapendo di poter scegliere, o crescere aspettando che qualcuno scelga per te.
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